La depressione come reazione della mente per evitare danni maggiori.

 

 

La depressione, se è vero che è una reazione sana ad una società malata, rappresenta anche una reazione della mente per evitare danni maggiori alla persona. E questa reazione ce l’hanno le persone più sensibili o più intelligenti.

La persona intelligente e sensibile è predisposta naturalmente a fare diverse cose a beneficio dell’altro e di se stesso, è piena di interessi, di curiosità, e potenzialmente è in grado di svolgere attività interessanti, ben fatte, creative.
La persona intelligente e sensibile, insomma, ha la tendenza naturale a fare di più e meglio, rispetto ad una persona poco intelligente e poco sensibile.
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Il problema è però lo scontro con la società.
Il problema della persona dotata (“il dramma del bambino dotato”, lo definirebbe Alice Miller) è che viviamo in una società che fa di tutto per appiattire e reprimere le doti personali di ogni individuo, per uccidere la parte più autentica, vitale e originale dell’essere umano.
La cultura viene rappresentata appiattita, vuota, priva di stimoli. Quindi la persona intelligente trova spesso noioso e poco stimolante studiare le singole materie proposte a scuola col metodo tradizionale e cresce con l’idea che la cultura e lo studio siano cose noiose che non servono a niente.
Il mondo del lavoro ha delle regole falsate e non vengono premiati l’impegno e le reali capacità. Quindi va spesso a finire che la persona dotata per fare il meccanico, il pittore, il poeta, il romanziere, venga costretta dagli stimoli esterni a rinchiudersi in una banca o in ufficio postale come meta ultima agognata a causa della sicurezza del posto fisso.
La vita di coppia viene ingabbiata in una serie di regole che inevitabilmente dopo qualche tempo uccidono l’amore e spesso la personalità di entrambi i partner. La maggioranza delle coppie finisce quindi per vivere una vita noiosa, priva di stimoli, e soprattutto priva di una crescita spirituale comune.
La persona capace, insomma, non ha spazio per esprimersi e manifestare la propria creatività e sensibilità, si scontra con un mondo di cui non riesce ad afferrare le regole e non si riconosce nella vita piatta e ordinaria che la società cerca di preparargli (casa, lavoro noioso, famiglia, supermercato il sabato sera, gitarella domenicale).
Pur di evitare di disperdere le sue energie a vuoto andando a cozzare contro un binario morto, entra in depressione. Pur di evitare un danno più grave (disperdere energie a vuoto), la mente si ferma e la vita della persona rimane bloccata, in mancanza di alternative valide.
Entrano in depressione quindi le persone più sensibili e/o intelligenti e capaci, mentre le persone con poche capacità sono spesso (anche se non sempre) più facilmente adattabili al sistema malato in cui viviamo.
Proprio per questo non ha senso agire solo sulla volontà, rafforzandola, e facendo venire al depresso la voglia di “fare le cose”. In tal modo si pretende di eliminare il sintomo, ritenendo la persona guarita, quando la causa è invece ancora latente e pronta a scatenare altri sintomi.
Il fare delle cose, l’essere attivi, l’avere un lavoro e una vita anche movimentata, non garantiscono che la persona sia sana.
Non a caso molte persone iperattive, quelle che non riescono mai a fermarsi, che se rimangono sole si intristiscono, che fanno tante attività una in fila all’altra, sono in realtà dei depressi ipercompensati; la gran quantità di cose da fare infatti impedisce di prendere contatto con la propria realtà più profonda, ovvero con la propria depressione. Impedisce alla persona, insomma, di ammettere a se stesso: sono infelice.
Chi è iperattivo, quindi, non sta affatto bene, ma semplicemente “sembra” solo in apparenza stare bene: all’esterno si fa vedere come una persona normale, e nessuno gli consiglierà di andare da uno psicologo; ma internamente è infelice e sente un senso di vuoto, che spesso ricaccia e nega anche a se stesso.                 Pubblicato da :Paolo Franceschetti